Il grido inascoltato dei giovani.
Disagio adolescenziale e crisi del discorso educativo
Questo è un anno difficile. Sotto tanti fronti. Siamo stati tutti, adulti e giovani, sottoposti a grandi prove che per certi aspetti hanno potuto rappresentare grandi opportunità di riattivare risorse sopite e inespresse e per altri ci lasciano invece ancora in balìa di grandi ferite e molte incertezze.
Abbiamo assistito ad assunzioni di responsabilità da parte di molti giovani e giovanissimi nel riuscire a reggere una situazione inusuale, soprattutto per loro, che vivono una stagione della vita dove il “fuori” è il campo di elezione del proprio essere e del proprio sperimentarsi.
Ma per altri versi questo periodo sta mettendo in luce enormi falle, che non sono certo conseguenza di questo particolarissimo momento storico che stiamo vivendo e cercando di attraversare.
Forse possiamo piuttosto dire che questo periodo, se da un lato ha permesso di far emergere risorse inaspettate, dall’altro ha messo in maggiore evidenza, o senza dubbio ha amplificato, delle crepe che già esistevano nel discorso educativo contemporaneo e ci ha resi maggiormente consapevoli della carenza di sistemi valoriali e di fattori protettivi, soprattutto per le nuove generazioni, di cui la nostra società è amaramente responsabile.
Stiamo assistendo a drammatici episodi di cronaca che hanno come protagonisti dei giovanissimi.
E ogni parola che leggiamo è un pugno nello stomaco.
Violenze sessuali, baby gang che terrorizzano coetanei con violenze psicologiche e fisiche, minori che fanno uso di sostanze, a rischio di lasciarci la pelle (come drammaticamente appreso anche da recentissime cronache), giovanissimi ubriachi che devastano le proprie città e che dileggiano apertamente qualunque espressione dell’autorità adulta che provi a stabilire un limite, sia egli un genitore, un professore, un esponente delle forze dell’ordine. Sotto al nostro sguardo si consumano atti drammatici, che sembrano sempre coglierci alla sprovvista e che ci costringono sempre a lavorare sull’emergenza, quando il disagio è già esploso, quando dei meccanismi si sono cronicizzati.
I fenomeni che ho sopra elencato stanno avvenendo in qualunque città, in qualunque tipo di scuola o famiglia, indipendentemente da luoghi geografici o contesti socio-culturali particolari. Questi episodi ci riguardano tutti. Non c’è una distinzione tra un “noi” preservato e protetto e un “loro” contrassegnato da caratteristiche ben codificabili.
Non sto ovviamente sostenendo che tutti gli adolescenti si comportino così, ma non si può ignorare una fetta significativa di popolazione giovanile che sta urlando la propria sofferenza e il proprio disagio, alzando vertiginosamente l’asticella ogni volta di più.
Non tenere conto di questo, rischia di produrre due effetti parimenti e radicalmente rilevanti: da un lato di sottrarre l’adulto, qualunque adulto, da un’assunzione di responsabilità rispetto a quanto sta succedendo e dall’altro di protocollare il comportamento deviante adolescenziale come esito di disinformazione e ignoranza, attribuendo a cause esterne un malessere che è invece profondamente interno al soggetto e decisamente connesso alla società e al discorso educativo contemporaneo in cui è immerso.
Il disagio giovanile contemporaneo ci costringe a riflettere sulla difficoltà che gli adolescenti sembrano avere nel riconoscere e padroneggiare le proprie e le altrui emozioni, nel sapersi fermare, nel saper dire No!, nel distinguere il bene dal male, così come nello stabilire una differenza tra ciò che è privato e ciò che è pubblico, finendo per diventare, spesso inconsapevolmente, vittime e carnefici dell’altro e di sé stessi, con conseguenze talvolta tragicamente fatali.
Il proliferare di situazioni in cui gli agiti adolescenziali esondano ed eccedono in modo drammaticamente pericoloso, porta inevitabilmente a considerare una responsabilità collettiva dalla quale nessuno di noi può uscire indenne e intoccabile. I giovani stanno gridando tutta la loro fragilità e solitudine e la comunità tutta è chiamata a rispondere a questo appello.
I comportamenti messi in atto dagli adolescenti sono i sintomi manifesti della crisi del discorso educativo contemporaneo.
Se non partiamo da questa consapevolezza, rischiamo di arrivare sempre in ritardo, a tamponare situazioni già deflagrate. Se attribuiamo colpe e responsabilità alla musica che ascoltano, agli amici che frequentano o alla disinformazione, rischiamo di guardare il dito e non la luna.
E una lettura di questo tipo continua a farci allontanare dai giovani, che invece stanno disperatamente chiedendo, a modo loro ovviamente, una maggiore presenza dell’adulto.
Ammettere questo non significa colpevolizzare, ma assumersi delle responsabilità educative, interrogandosi sulla direzione che abbiamo imboccato da molto tempo e che è andata verso la destrutturazione di ruoli piuttosto che verso la costruzione di nuovi, dai confini meno rigidi rispetto al passato ma altrettanto chiari e rassicuranti.
Si sa benissimo che non esistono regole scritte che preservino dall’errore o manuali che indichino la via da percorrere. Ma una certezza esiste, anche se tendiamo tristemente a dimenticarla: i bambini prima e gli adolescenti poi hanno bisogno di adulti che facciano gli adulti.
Pensare che basti fare formazione ai nostri giovani su bullismo e cyberbullismo, sulla violenza di genere o sulle nuove dipendenze sia condizione sufficiente a prevenire delle situazioni più o meno drammatiche è semplicemente illusorio e preoccupantemente collusivo con un sistema che tende a deresponsabilizzarsi e a cercare soluzioni rapide e poco faticose.
Viviamo in un’epoca in cui la parola è elevata a feticcio, deleghiamo alla formazione, al dare informazioni, al sapere in generale un’onnipotenza tale che ci mette al riparo dalle nostre paure e dal metterci in discussione veramente. Ma la vera trasmissione educativa non avviene tramite un sapere, una spiegazione, un travaso di conoscenza.
L’esperienza del limite, la capacità di procrastinare il soddisfacimento di un bisogno, il non poter avere subito ciò che desideriamo, il rispetto del mio e dell’altrui corpo, tanto per citare alcuni fattori protettivi fondamentali, sono competenze che non nascono con noi come parte del nostro corredo genetico. E non sono neanche delle abilità che spuntano magicamente da sole con il passare del tempo. E, in ultimo, non sono neanche apprendimenti che possono essere insegnati tramite slides o corsi di formazione ad hoc.
Queste sono acquisizioni lente, progressive, che necessitano dell’amorevole presenza di un adulto accudente e presente che permetta pian piano al bambino di sperimentarle, per poi, gradualmente, poterle fare proprie e lasciarle sedimentare in un bagaglio dal quale in seguito quello stesso bambino divenuto adolescente potrà attingere, per far fronte alla tempesta emotiva che si troverà a dover affrontare. E questo è un lavoro lungo e complesso che non può iniziare in adolescenza, ma deve avvenire prima, appunto, in altre fasi dello sviluppo.
Un famoso pediatra e psicoanalista, Donald Winnicott, che ci ha fatto dono di un’opera meravigliosamente ricca e quanto mai attuale sullo sviluppo psicoafettivo del bambino, scrive in un capitolo intitolato “Morale ed educazione” del 1962 qualcosa che andrebbe letto e riletto per capire la portata educativa di un pensiero che oggi ha perso il suo radicale valore.
Winnicott scrive che, da un certo momento in poi, i genitori dovrebbero iniziare a lasciare a portata di mano del bambino, non solo oggetti, come macchinine o giocattoli di pezza, ma anche “codici morali”, ovvero iniziali messaggi di approvazione e disapprovazione, iniezioni progressive di frustrazioni che aiutano il bambino, sempre in relazione alle sue possibilità di comprensione, a capire che il mondo non gli appartiene per intero e che l’altro, sia egli genitore o altro soggetto, non è a sua completa disposizione qualunque cosa egli faccia o dica. L’altro reagisce con accoglienza o disapprovazione a seconda di come ci comportiamo.
Il discorso educativo contemporaneo ha radicalmente sovvertito questo assioma fondamentale.
L’adulto contemporaneo teme la disapprovazione del bambino, teme di perdere il suo amore nel momento in cui lo sottopone a delle limitazioni, a dei No, a delle attese. Il mito di crescere dei figli felici si è trasformato in un’assoluta difficoltà a stabilire dei limiti e dei confini per un’insana intollerabilità nello stare nel posto dell’adulto, ovvero di colui che è talvolta oggetto della rabbia del proprio figlio o, peggio ancora, causa della sua tristezza. Il risultato di questo stile educativo è che stiamo affidando al mondo, degli adolescenti sempre più spavaldi e contemporaneamente sempre più fragili.
Se non si accompagna gradualmente un bambino a fare i conti con piccole frustrazioni e lo si iperprotegge invece da ogni forma di insoddisfazione o limite come si può pretendere che da adolescente sappia affrontare lo tsunami che lo travolge, alle prese con la propria immagine corporea, con l’emergere della sessualità, con il confronto con il gruppo dei pari?
Se non si accompagna un bambino a fare progressivamente i conti con le proprie emozioni, positive o negative che siano, come si può pretendere che l’adolescente abbia gli strumenti necessari per poterle poi riconoscere e vivere sulla propria pelle quando arriveranno come montagne russe a sospingerlo su e giù in una girandola emotiva continua?
Se non si accompagna un bambino a fare esperienza dei No, come possiamo pretendere che da adolescente sappia rispettare dei No che gli vengono impartiti sia in famiglia che in contesti sociali come la scuola, lo sport, il lavoro o, d’altro canto, che sappia lui stesso a sua volta dire dei No di fronte a situazioni potenzialmente pericolose?
Si può far proprio un insegnamento, un valore, un concetto solo dopo che qualcuno ce lo ha trasmesso con il proprio modo di stare al mondo, con l’esempio, con un accompagnamento amorevole che introduce giorno per giorno un nuovo strumento da inserire nella propria cassetta degli attrezzi per affrontare il mondo, la vita. Il migliore apprendimento avviene tramite l’esperienza e l’osservazione, non tramite spiegazioni. E accompagnare a crescere significa anche introdurre fin da bambini dei limiti, parola troppo spesso assente ingiustificata dal discorso educativo contemporaneo.
Laddove ci sono dei limiti chiari, la ribellione adolescenziale è contenuta entro certi confini. Quando l’adolescente sa che esistono delle regole perché da tempo ne fa esperienza e ha certezza della presenza di un adulto che monitora perché vengano rispettate, basta poco per mettere in atto una sana trasgressione. E una sana trasgressione è parte integrante di un sano processo di crescita dell’adolescente, che ha bisogno di valicare dei confini per potersi affermare, per potersi differenziare dalle aspettative genitoriali e iniziare il suo cammino di separazione e individuazione.
Dobbiamo preoccuparci quando un adolescente non trasgredisce mai!
Ma questo processo sano appena descritto, è più arduo quando i limiti compaiono sulla scena per la prima volta in adolescenza, dopo che per anni ci sono stati molti sì e molti passi evolutivi lasciati condurre a bambini che fanno i bambini, ovvero che mirano al soddisfacimento immediato dei loro bisogni, che piangono se non hanno subito il giocattolo che a loro piace, che vorrebbero avere sempre e subito l’attenzione degli adulti, che vorrebbero fare sempre ciò che a loro fa piacere fare.
All’inizio della vita, quando un bambino è totalmente dipendente dai propri genitori, è necessario che abbia completa attenzione, dedizione, pronta soddisfazione dei suoi bisogni.
E’ necessario per la sua sopravvivenza fisica e psichica!
Ma è altrettanto necessario che progressivamente inizino ad esserci mancanze da parte delle risposte genitoriali perché il bambino possa evolvere. Se anticipiamo sempre i suoi bisogni, il bambino non avrà stimolo a chiedere. Se diciamo sempre sì alle sue richieste, il bambino penserà che il mondo è al suo servizio. Se non lo accompagniamo gradualmente a vivere le proprie emozioni, anche quelle negative, il bambino faticherà a sopportare quelle stesse emozioni quando le incontrerà nelle relazioni con altri diversi dalle sue figure familiari. Se non poniamo dei limiti, il bambino non accetterà limiti quando sarà in ambienti diversi da quello familiare, come a scuola per esempio.
Freud diceva che educare è un compito impossibile, perché per quanto ci si impegni, non si può essere certi del risultato. E crescere dei figli è forse la scommessa più grande, soprattutto in una società come quella contemporanea nella quale da tempo famiglia e scuola sono tagliati fuori da ogni seria agenda politica, in una società sempre più frammentata e sempre più accelerata e votata a miti di efficienza, di immagine e di possibilità illimitate.
Ma è per questo che bisogna tornare a fare comunità, riappropriandosi di sani valori da trasmettere alle nuove generazioni come fattori protettivi fondamentali e di tornare ad incarnare un ruolo di adulto e non di “adultescente” come mirabilmente lo ha definito lo psicoanalista Massimo Ammaniti.
Questo è ciò che da tempo i giovani stanno chiedendo, anzi urlando, con i loro gesti estremi e con le loro parole chiare. E le risposte che stiamo dando sono insoddisfacenti.
Continuiamo a trattarli come il problema da risolvere e aggiustare, inondandoli di parole, di formazioni, di spiegazioni. Oppure, peggio ancora, deleghiamo loro, con “educazioni alla pari”, un compito pedagogico fondamentale che spetta a noi adulti svolgere.
Benissimo che ci siano momenti di confronto su tematiche attuali e che l’educazione passi anche attraverso un passaggio di nozioni e di riflessioni condivise.
Ma non è sufficiente e una risposta solamente di questo tipo rischia di continuare a farci rimanere sordi di fronte al grido disperato dei giovani: trovare sponde ferme e rassicuranti in adulti che facciano gli adulti, genitori e insegnanti sufficientemente autorevoli, consapevoli del loro ruolo, non impauriti da gap generazionali né desiderosi di annullare differenze dove è invece importante che vengano mantenute.
Gli adolescenti non hanno solamente bisogno di adulti con cui dialogare, ma di adulti anche con cui arrabbiarsi, magari chiudendo delle porte, certi però che li ritroveranno quando decideranno di aprirla.
Scuola e famiglia, loro sì, devono tornare a dialogare e ad incarnare, ognuno dal proprio vertice, quel ruolo rassicurante di cui bambini ed adolescenti hanno un bisogno vitale per poter essere liberi di saggiare i limiti, di poter fare una sana ribellione e di poter progettare il loro futuro con la serenità di cui hanno diritto.
E questo processo è però necessario che inizi ad avvenire in fasi molto precoci dell’educazione dei bambini, gettando le basi per i successivi compiti evolutivi dell’adolescente.
Martina Paioletti 19.07.2020