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LAVORARE CON CLASSI DIFFICILI.

L’IMPORTANZA DEI LIMITI

Collaborando da tempo con le scuole, medie superiori in particolare, spesso mi viene chiesto di effettuare interventi in classi in cui sembra difficile poter lavorare, nelle quali i docenti percepiscono sentimenti di impotenza, esasperazione, mortificazione.

Vissuti che possono portare gli insegnanti a percepirsi inadeguati, a sentire di non avere gli strumenti necessari per riattivare interesse, mantenere l’ordine, portare avanti un programma educativo ancor prima che formativo, legato quindi non soltanto agli apprendimenti delle materie, ma alla trasmissione di un saper desiderare, di un amore e di una sana curiosità verso il mondo della scuola. O vissuti che talvolta alimentano in pochi, ma non in tutti gli insegnanti, iniziative personali che incontrano buoni esiti, ma che rimangono appannaggio dello stile personale del singolo, piuttosto che diventare buone prassi di molti.

Ma quali sono le classi difficili? Cosa rende una classe difficile?

Nel nostro immaginario siamo portati a pensare che le classi difficili siano quelle che hanno al loro interno quel soggetto che per problemi di natura personale disturba l’andamento della lezione richiamando l’attenzione su di sé, oppure pensiamo a classi con un numero elevato di alunni, o ancora a classi che per indirizzo scolastico (pensiamo agli Istituti Professionali) o per zone geografiche (particolari città o quartieri) possano costituire di per sé degli elementi di complessità tali che rendono difficile il normale svolgimento delle lezioni.

Ora, se tutti questi fattori sopraelencati possono essere plausibilmente veri e sicuramente reali, credo che non siano rappresentativi di quanto sta accadendo sempre più spesso nelle “normalissime” classi delle nostre “normalissime” città in cui abitano “normalissime” famiglie.

Se non partiamo da questa ammissione di evidenza, continuiamo a sottrarci, a mio modo di vedere, dall’assunzione di responsabilità di fare i conti con qualcosa che ci sta (o già è avvenuto) sfuggendo di mano.

Oggi la maggior parte delle classi di ogni ordine e grado rischia di essere una classe difficile.

Una classe in cui è difficile stare sia per gli alunni che per gli insegnanti.

Cosa rende, quindi, davvero una classe difficile in questo senso?

Spesso, il fattore determinante è rappresentato dall’assenza del rispetto delle più basilari regole che rendono possibile l’esistenza di un contesto: un insieme di regole istituzionali e di norme sociali che sembrano essere continuamente messe alla prova, in discussione, tacciate di insensatezza da parte degli alunni e a cui gli adulti di riferimento faticano a rispondere con sufficiente autorevolezza.

Sembra che tutti possano fare tutto: mangiare, controllare il telefono, alzarsi, parlare ad alta voce mentre l’insegnante spiega.

Tutto questo di fronte all’adulto.

Nessuno di questi comportamenti viene celato, trattenuto, fatto di soppiatto. Ogni comportamento viene esibito, mostrato, posto sotto lo sguardo dell’adulto.

L’ora di lezione diventa quindi una lotta, una sfida continua tra armi che sempre più spesso diventano pari e una battaglia dalla quale rischiano di uscire tutti sconfitti: gli insegnanti esasperati e stanchi e gli alunni apaticamente vittoriosi.

Il risultato di tutto ciò è il mandare in secondo piano il reale valore della scuola, dello stare insieme, del collaborare, del rispetto reciproco, dell’impegno, della fatica e anche (perché no!) del divertimento dell’imparare cose nuove. Ovvero tutti quei mattoncini indispensabili al giovane (in ogni sua fase evolutiva) per costruire una propria identità personale, sociale, lavorativa.

Quando questo manca, tutto sembra piatto, amorfo, apatico, senza spessore. Non sembra neanche esserci il gusto, l’intenzionalità di provocare l’altro, ma si genera e assesta un clima di caos generale in cui semplicemente non si riesce a fare nulla.

In cui si finisce per chiedersi, alunni e ed insegnanti insieme: cosa ci facciamo qui?

Noi sappiamo che l’adolescenza è per definizione un periodo della vita in cui un soggetto, per arrivare a definirsi tale, ha bisogno di una sana ribellione, di saggiare i propri e gli altrui confini, di testare il limite per potersi separare dalla domanda genitoriale e trovare un proprio posto nel mondo.

Ma dove il limite non c’è, dove tutto è permesso e reso lecito, dove si fatica a mantenere salda la regola da parte dell’adulto ancor prima che dal ragazzo, come è possibile una sana ribellione, una sana trasgressione dalla norma come tentativo di autoaffermazione?

Si sa che un atteggiamento tipico del bambino ma soprattutto dell’adolescente è il tentativo di aggirare la norma, di trasgredirla al fine di testarne la tenuta, di verificarne l’effettiva validità e solidità.

Ma la trasgressione, perché possa definirsi segno evolutivo di un percorso di costruzione della propria identità, deve essere nascosta, segreta, fatta di soppiatto, non esibita apertamente.

Si deve temere di essere scoperti.

E quando si è scoperti, si prova in genere paura, vergogna, senso di colpa.

Quando invece la trasgressione viene esibita con noncuranza e senza intento provocatorio, è segno di una mancata introiezione del senso del limite che le regole rappresentano.

Quando guardo il telefonino con noncuranza ad un palmo di naso dallo sguardo inerme e sbigottito del professore, quando apparecchio il banco per la merenda durante l’ora di lezione come niente fosse, quando mi alzo dal banco senza chiedere il permesso, ovvero quando non ho percezione di stare valicando un limite, significa che il limite non c’è, né fuori né dentro di me.

La regola non vale niente.

Purtroppo, l’imperativo categorico della società contemporanea sta sempre più andando nella direzione di non considerare il concetto di limite come uno dei baluardi fondanti del vivere civile, generando i miti del mordi e fuggi, del tutto, subito e con il minimo sforzo, del sì incondizionato di fronte a tutti i bisogni (reali o indotti), annullando il senso della fatica, dello sforzo, della passione, della curiosità, dell’attesa, della soddisfazione generata da un proprio impegno, annullando la capacità di desiderare, di sognare, di darsi il tempo di pensare.

E gli esiti di tutto questo si manifestano in tassi di dispersione scolastica sempre maggiori, in stati ansiosi, se non panici, sempre più frequenti, fino ad arrivare ad evitamenti fobici di qualunque forma di possibile fallimento: interrogazioni, compiti, conflitti con compagni o professori.

Si finisce per ammalarsi per le sfide normali che la vita porta a dover affrontare.

L’errore, la possibilità del fallimento, uno sguardo meno accogliente, una parola detta male, un No, un rifiuto, un insuccesso, un divieto, sembrano essere tutte fonti di intollerabile malessere e per questo evitate come unica forma di auto-protezione.

L’assenza di limiti porta con sé anche la difficoltà a rispettare sé stessi e l’Altro, perché dove tutto è possibile niente ha importanza. La mancanza di empatia lascia il posto all’indifferenza e all’apatia, aspetti rinforzati da un massiccio uso di dispositivi tecnologici che mettono al riparo dal provare emozioni e dall’avere consapevolezza delle proprie azioni, come si osserva bene nei fenomeni di cyberbullismo.

Alla luce di tutti questi aspetti, credo che fare l’insegnante oggi sia molto più complesso che in altre epoche. Per molteplici motivi.

Gli insegnanti spesso vengono chiamati a ricoprire ruoli che non sono tenuti ad incarnare: genitore, psicologo, amico, confessore.

Freud diceva che educare è uno dei compiti impossibili, assieme a governare ed analizzare, perché per quanto ci si sforzi non si può mai essere sicuri del risultato. Ma oggi educare sembra essere un compito ancora più arduo. Anche perché spesso gli insegnanti sono lasciati soli ad incarnare una Legge che nessuno sembra più occuparsi di far rispettare.

Dalla voce e dagli atteggiamenti dei ragazzi mi pare però levarsi un appello molto chiaro agli adulti di riferimento.

La vera sfida è raccogliere questo appello, ridando voce al corpo docenti e ristabilendo una sana alleanza con le famiglie per cercare insieme di vivificare i nostri giovani, nella fase più viva della loro vita, quella in cui si fanno scelte importanti per il proprio futuro, come persone prima ancora che come alunni.

Spetta all’adulto che posa lo sguardo sugli atti dei giovani, conferire loro un senso e incarnare una risposta sufficientemente convincente da fare presa su di loro.

Sono i ragazzi stessi a chiederlo.

Quando domando loro, agli alunni delle cosìddette classi difficili, chi sono gli insegnanti che rispettano, mi citano sempre, quasi all’unanimità, quelli che “sanno tenere la classe”, quelli che “hanno polso”, quelli “che si fanno rispettare”.

E non parlano di chi urla, mette note, dà sospensioni, scrive lettere di richiamo, ma di chi incarna con il suo stesso esserci, una presenza sufficientemente autorevole che sa quando ascoltare e quando farsi ascoltare, quando permettere un rumore di fondo e quando riportare il silenzio.

Parlano di chi, in fondo, riporta un ordine nel caos, contenendo la normale tendenza all’incontinenza di chi ancora testa i limiti nel reale, incarnando una rassicurante autorevolezza senza chiedere che gli venga riconosciuta, accettando (cosa difficilissima!) di essere bersaglio di rabbia senza averne paura, non cedendo alla seduzione di una relazione orizzontale, paritaria, simmetrica, come unica via pensabile di legame.

Credo che possiamo interrogarci su come tornare ad incarnare un ruolo sufficientemente appetibile per i giovani.

E il primo passo è quello di tornare a ricoprire dei ruoli sufficientemente chiari ed autorevoli, e come tali rassicuranti, segno di una presenza solida e definita alla quale un adolescente sa di potersi riferire, sulla quale sa di poter contare, ma anche contro la quale può scagliarsi perché sa essere sufficientemente forte da resistere ai suoi urti e alle sue provocazioni, testando dei limiti che, quando sono pochi e sufficientemente chiari, sono più facilmente gestibili tanto da chi li mette quanto da chi tenta di aggirarli.

Per far questo però gli insegnanti devono poter contare sull’appoggio delle famiglie, che, anche questo non possiamo esimerci dal riconoscerlo, troppo spesso delegano a terzi quell’educazione di cui dovrebbero assumersi la responsabilità in prima battuta, perché se un adolescente non capisce il valore della regola è anche perché (in genere) della regola ha fatto poca esperienza.

Quando scuola e famiglia tornano a creare una solida alleanza, così come il corpo docenti torna ad avere una voce sufficientemente forte ed unita, i ragazzi possono tornare a ricoprire il loro ruolo di adolescenti, cui spetta il compito di disattendere aspettative, di mantenere i propri segreti, di chiudere talvolta le porte al mondo adulto, ma sicuri che dall’altra parte c’è qualcuno che li pensa e che li accompagna a crescere.

Perché forse non sono (sempre) le classi ad essere difficili, ma è il compito di educatore ad esserlo, sempre.

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ADOLESCENZA E DINTORNI… “Quali sono le classi difficili oggi?”